Pasquale Celommi

di Fulvia Celommi

Quasi tutta la produzione di Pasquale Celommi ha come protagonista il rapporto che decide la vita: uomo e natura, tempo ed eterno verificato nella storia. Opera dell’uomo, questa costruisce i valori ai quali l’uomo stesso aderisce quando acquista consapevolezza delle leggi eterne che lo sovrastano: il lavoro, la famiglia, la natura.

L’accettazione di queste leggi costituisce il superamento dell’Io per realizzare il Sé. E’ questa la ricchezza di tutta quella gente umile che vive nell’opera dell’artista e che sembra non avvertire mai l’emarginazione sociale poiché sente di essere grande nella propria dignità costruita nel lavoro, protetta e verificata nell’istituzione sacra della famiglia.

Un percorso lungo e difficile quello di Psquale Celommi nell’arte. Era nato il 6 gennaio 1851 a Montepagano, antichissimo borgo situato su di un’altura appenninica del litorale abruzzese, in una famiglia di pescatori ricca di 14 figli.

Nelle brevi pause del lavoro tutta la sua gioia era nella sua mano già esperta per fermare nel disegno il ritmo delle forme.

Un signore del luogo ne intuì il valore e volle farlo studiare.

Il Comune di Montepagano, con una delibera del 1869 gli fa dono di 30 lire per comprare i colori riconoscendo il ragazzo dotato dalla natura di un ingegno sublime per la pittura. Un’altra delibera del Consiglio Provinciale di Abruzzo Ultra Primo gli consente di frequentare l’Accademia di Belle Arti a Firenze.

Qui ebbe maestro Antonio Ciseri e strinse contatti con gli artisti eredi delle battaglie celebri del Caffè Michelangelo.

Il complesso spessore culturale del clima fiorentino dell’epoca mise Pasquale Celommi a contatto con le più importanti correnti della cultura europea: impressionisti, veristi, simbolisti. Il pittore aveva intanto incontrato una giovinetta di 17 anni: Giuseppina Giusti, nipote del poeta, che sposò il 16 agosto 1880.

Ancora studente a Firenze ebbe grande successo in diverse mostre nel corso delle quali suscitò anche l’ammirazione dell’Imperatore del Giappone Mutso Hito che volle alcune opere del giovane artista per il suo palazzo.

Grande rinomanza ebbero nel corso della sua carriera artistica altre mostre allestite a Londra, Torino, Roma, Milano, in Germania, ecc..

Tornato da Firenze fu attivo nella sua terra nella quale lasciò insieme a tanti dipinti un monumento illustre: il suo studio che fu cenacolo d’arte nel quale si riunivano gli esponenti più importanti della cultura dell’epoca: D’Annunzio, Michetti, Tosti, Bindi, De Vincenzi ecc..

Morì il 9 agosto 1928.

 

LA SACRA FAMIGLIA

In occasione del Natale 1988, le Poste italiane emisero un francobollo raffigurante una singolare opera del Celommi: La Sacra Famiglia.

L’interno di una povera casa, sullo sfondo un tavolo da falegname con pochi attrezzi essenziali; discende dall’alto fin a terra un tendaggio, forse parete divisoria tra officina e abitazione. Una colonna poggia su un basamento a fianco dal quale si intravedono alcuni scalini degradanti sull’impiantito segnato, in prossimità del tavolo, da alcuni trucioli testimonianza del lavoro appena interrotto.

Un torrente di luce, convergente nella centralità dell’opera, definisce con minuziosa, amorevole precisione una culla di fattura modesta ma perfetta nella linearità ovale, nella meticolosa bordatura, nelle commessure curatissime. Su questa culla tutta la ricchezza della casa: un tulle leggerissimo intessuto di luce che dona riflessi dorati al povero legno e li accorda con quelli di un drappo frangiato che, dall’estremità della culla, si effonde serico, sul pavimento.

Accanto, ma dietro la culla, la luce prende corpo, si fa vita in un bimbo abbandonato nel sonno sul grembo della madre, una giovane donna che, estatica, converge tutta se stessa nella contemplazione della sua creatura. Dietro e a fianco della donna, in un tono di luce appena smorzato, un uomo, nella maturità degli anni, partecipa come indirettamente all’estasi della madre.

Nessun segno agiografico nella composizione, ma il realismo umano, intessuto di mistico silenzio, vive il mistero religioso della “Sacra Famiglia”.

“La Sacra Famiglia”, giudicata dalla critica punto d’arrivo nella carriera artistica di Pasquale Celommi, trovò nel francobollo più ampia diffusione di quella che sembra essere la concezione di fondo alla quale si ispira tanta produzione del Maestro abruzzese: la fusione tra religione e umanità, o, se vogliamo, la percezione in senso religioso del valore umano.

Unità perfetta alla quale ha dato inizio l’umile fanciulla di Nazaret quando ha confermato la propria sottomissione all’Autore della vita universa ed ha pronunciato quel “Fiat” che ha deciso il destino del genere umano.

In questo dipinto, come aleggiante sul bimbo e immedesimato nel suo stesso respiro, quel destino è sospeso sulla pensosa tenerezza della donna che vive questo momento di struggente intimità consapevole del martirio terribile che, ai piedi della croce, la unirà al figlio quando saprà di dover dilatare la propria maternità a tutti gli uomini, nei secoli futuri, fino alla conclusione della storia. Anche il Santo Falegname sa e assolve con infinita modestia il compito affidatogli di proteggere quella Madre e quel Figlio che saranno uniti nel martirio.

Nell’architettura del quadro le masse configurate dalle persone e dalle suppellettili e, soprattutto, da quell’atmosfera viva delle sottili vibrazioni del colore, sono chiamate a realizzare la parola del silenzio testimoniata dai Vangeli: “Maria custodiva nel silenzio del suo cuore tutte queste cose…”, “Giuseppe fu avvertito in sogno da un Angelo”….

All’economia del segno e all’organicità dei piani e delle masse l’artista affida il compito di tradurre in unità stilistica la sintesi potente dell’opera che trova il suo linguaggio di elezione nella fusione tonale del colore.

La musica del quadro conosce allora il ritmo semplice e grandioso di una costante ascensionale che procede in una sorta di ellisse. Il dramma della terra, luogo e testimonianza delle limitazioni particolari che realizzano i momenti dell’esistere, ma insieme anelito e propedeutica all’infinito e all’eterno è scritto in quella linea che il dipinto evidenzia su di un piano diagonale, e che dal piede destro del bimbo e dal braccio destro della Madre, prosegue ancora lungo il collo e la testa della Vergine reclinati in adorante contemplazione, fino alla spalla sinistra di Giuseppe che, con la mano aperta sul petto, quasi trattiene il respiro nella preghiera di chi si fa grande nell’umiltà.

Nella versione discendente quella linea, dalla spalla sinistra del Santo, continua lungo il lembo del mantello che gli avvolge la persona e, come sottolineato dal bastone appena reclinato, prosegue ancora per concludersi sulle ginocchia della Madre: il sinistro sollevato per il piede che tocca, quasi senza pressione, l’orlo della culla, e quello destro che effonde sul pavimento la ricchezza azzurra del manto.

La luce addensata nella centralità della composizione segna in accordo perfetto l’armonia dei piani, conosce i toni sommessi e le valenze smaglianti, diviene vita e ragione della vita. “Ego sum via veritas et vita”. Allora tutte le contraddizioni si annullano: nel bimbo figlio di Dio e dell’uomo, nella fanciulla «Vergine Madre, figlia del suo figlio», in Giuseppe che, nella sua infinita umiltà, sa essere partecipe e baluardo ai disegni di Dio.

La luce realizza una fusione unitaria: fonde le tonalità dei colori, rimuove e allontana i contrasti, ma soprattutto esalta, rimbalzando sui piani, i contorni delicati, l’unione – quasi immedesimazione – di quella Madre con quel Bambino appena simbolicamente indicata da quel velo evanescente.

L’ellisse si chiude mentre sullo slancio diagonale di questa linea trascorre la musica del quadro ripetendo senza fine la circolarità del ritorno: dalla nascita alla morte, dall’umano al divino, dal tempo all’eterno.

Per tale ragione la natura, in tutti i suoi aspetti, è la grande scuola di questi uomini impegnati a viverla, a conoscerla, a desumerne grati il sostentamento e ad accettarne ogni manifestazione con infinita saggezza.

 

IL VALORE DEL LAVOROFonte : https://it.wikipedia.org/wiki/Pasquale_Celommi

Nasce allora il religioso rispetto per la vita che deve continuare attraverso gli affetti famigliari, la trasmissione dei valori etici, prima fra tutti il lavoro. Ecco allora quelle pause ristoratrici che consentono di gustare il frutto di tante fatiche, talora quasi impossibili, ma sottolineate dalla adesione quasi sempre sorridente alle leggi eterne che parlano nell’atmosfera dorata della primavera, nelle piogge autunnali, nelle albe, nei meriggi, nei tramonti, nelle ondulazioni dolcissime dell’Appennino abruzzese, nelle montagne: “Il Gigante che dorme”, versione teramana del “Gran Sasso”, ma soprattutto nei due valori che furono la costante ispirazione nella pittura di Pasquale Celommi: il mare e la luce ai quali durante tutta la sua carriera artistica il Maestro progressivamente tolse ogni contingenza per farne testimonianza dell’infinito e dell’eterno. Studiandone gli effetti grandiosi, e, insieme, i recessi particolari, li tradusse nella sua pittura come musicalità diffusa e fu pittore dell’aria: un vertice nel quale il suo realismo verista assumeva la dimensione della spiritualità. Quell’aria fatta di luce era definizione, emanazione della natura, delle cose, degli uomini, del loro vivere, dei loro affetti, delle loro speranze e ideali, era il sacro della vita.

Così ne “La Sacra Famiglia” i colori esulano da ogni netta definizione per sfumare in tonalità sommesse mentre cedono sapientemente ai piani di luce tradotti in areata luminosità che trova il suo punto d’arrivo in quel velo, come partecipe, nel prodigio del respiro, alla consapevolezza del dramma delle tre creature. L’aria, allora si fa preghiera: un vertice al quale Pasquale Celommi, nei piani, nelle forme, nella sapienza delle tonalità cromatiche, nelle vibrazioni luministiche, condusse poveri artigiani, pescatori, pastori, contadini, operai che immortalò proprio in questa loro adesione indiscussa, dettata da ancestrale, religiosa saggezza, a quelle leggi, mentre il suo pennello li definiva sovrani nella loro francescana povertà.

Allora questi umili furono grandi: difficilmente una regina conosce la maestosa regalità del passo con cui incedono le tre giovani contadine in “Ritorno dalla campagna”, la giovane raggiante di luce ne “La sposa del pescatore”, e ancora le tre fanciulle in “Canto popolare”; pochi conoscono il sicuro dominio delle cose che la donna intenta al bucato ne “La lavandaia”, o nella più conosciuta opera “Il Ciabattino”. Difficilmente “riscontrabile in una reggia la ricchezza dell’appagamento felice che costituisce l’unità tematica della povertà rilevabile ne “Il ritorno dalla fiera”, una quasi indigenza che Pasquale Celommi fa assurgere a “… divina ricchezza, ben ferace…”

In questo interno scalcinato, ricco solo di un povero focolare sono bimbi quasi nudi, stracci continuamente rattoppati, suppellettili ormai quasi inservibili, ma tre generazioni, che negli affetti hanno costruito una famiglia, sono felici.

Anche in questo interno, come in quello de “La Sacra famiglia” trascorre la percezione sacrale di legge eterna. Così il sorriso della mamma che cuce accanto al focolare, quello della nonna tornata dalla fiera a piedi nudi per economizzare la ricchezza delle vecchie scarpe, e la piccola rissa dei due bambini sotto l’unica ciambellina preziosa, testimoniano l’eroismo che religiosamente accetta tutte le condizioni della vita assumendole come strumento di regale dignità.

La centralità del dipinto converge sulla madre che, con il piede destro sollevato sul gradino del camino e la testa appena reclinata verso i bambini, gode sorridente e compiaciuta, del loro piccolo dramma. Come ne “La Sacra Famiglia” anche in quest’opera le masse scrivono il moto di una linea ascensionale che, partendo dal fuoco straordinariamente vivo del camino, segue la leggera inclinazione della giovane donna e tocca la testa appena reclinata dell’altra madre: la nonna. Tutto il resto: impiantito sconnesso, muri scrostati, drappi sdruciti, la sedia giocattolo con la piccola frusta, abiti laceri e persino il cesto nuovo, unica, povera ricchezza da usare solo per l’occasione importantissima della fiera, sembrano conoscere il disegno di quella linea.

Allora i colori vivi, addirittura smaglianti sui bricchi, sulla resta delle cipolle e quelli che evidenziano gli angoli bui, il camino affumicato, la caldaia che custodisce il ristoro del cibo, diventano linguaggio senza voce di quella religiosità umana che ne “La Sacra Famiglia” evidenzia la carità infinita della divinità che, per riscattare la propria creatura ne assume la fragilità umana: mistero che unisce Dio e Uomo.